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Jobs act, sentenza della Consulta

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Ultimo aggiornamento Mercoledì 17 Luglio 2024 10:56 Scritto da Sandro Mercoledì 17 Luglio 2024 10:55

Jobs act, sentenza della Consulta

La Corte costituzionale (sentenza n. 128 del 2024) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (c.d. repêchage).

Con riguardo alla stessa disposizione, la Corte (sentenza n. 129 del 2024) ha ritenuto non fondata la questione, sollevata in riferimento ad un licenziamento disciplinare basato su un fatto contestato per il quale la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione conservativa, a condizione che se ne dia un’interpretazione adeguatrice. Ossia deve ammettersi la tutela reintegratoria attenuata nelle particolari ipotesi in cui la regolamentazione pattizia preveda che specifiche inadempienze del lavoratore, pur disciplinarmente rilevanti, siano passibili solo di sanzioni conservative.

Quanto alla prima pronuncia, la Sezione lavoro del Tribunale di Ravenna aveva censurato, sotto diversi profili, la disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015 per il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo nella parte in cui esclude la tutela reintegratoria nell’ipotesi in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto, a differenza di quanto previsto per il licenziamento disciplinare fondato su di un fatto contestato insussistente.

La Corte ha accolto le questioni sollevate in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 4 e 35 Cost. rilevando che, seppure la ragione d’impresa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento non risulti sindacabile nel merito, il principio della necessaria causalità del recesso datoriale esige che il “fatto materiale” allegato dal datore di lavoro sia “sussistente”, sicché la radicale irrilevanza dell’insussistenza del fatto materiale prevista dalla norma censurata determina  un difetto di sistematicità che rende irragionevole la differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

La discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze dell’illegittimità del licenziamento non si estende, infatti, fino a consentire di rimettere questa alternativa ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su un “fatto insussistente”, lo qualifichi come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare.

Precisa, infine, la Corte che il vizio di illegittimità costituzionale, invece, non si riproduce qualora il fatto materiale, allegato come ragione d’impresa, sussista sì, ma non giustifica il licenziamento perché risulta che il lavoratore potrebbe essere utilmente ricollocato in azienda. Ne consegue che la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata deve tener fuori la possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa, non diversamente da come la valutazione di proporzionalità del licenziamento alla colpa del lavoratore è stata tenuta fuori dal licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente. Quindi, la violazione dell’obbligo di repêchage attiverà la tutela indennitaria di cui al comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.

Quanto alla seconda sentenza, la Sezione lavoro del Tribunale di Catania aveva censurato il mancato riconoscimento ad opera della stessa norma della tutela reintegratoria quando, per l’inadempienza del lavoratore contestata dal datore di lavoro, che si riveli “sussistente”, sia la stessa contrattazione collettiva a prevedere una sanzione conservativa.

La Corte, pur ritenendo complessivamente infondate le questioni sollevate in riferimento a plurimi parametri, ha fornito una interpretazione adeguatrice della disposizione censurata orientata alla conformità all’art. 39 Cost.

Premesso che la natura “disciplinare” del recesso datoriale comporta l’applicabilità del canone generale della proporzionalità, secondo cui l’inadempimento del lavoratore deve essere caratterizzato da una gravità tale da compromettere definitivamente la fiducia necessaria ai fini della conservazione del rapporto, la Corte ha ribadito la valutazione di adeguatezza e sufficiente dissuasività dell’apparato complessivo di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo contenuto nel d.lgs. n. 23 del 2015, come novellato dal d.l. n. 87 del 2018 ed emendato dalle sue precedenti pronunce, anche in riferimento alle ipotesi in cui il licenziamento disciplinare risulti “sproporzionato” rispetto alla condotta e alla colpa del lavoratore per le quali è prevista la tutela indennitaria.

Quanto, però, alla prospettata violazione dell’art. 39, la Corte ha affermato che la disposizione censurata deve essere letta nel senso che il riferimento alla proporzionalità del licenziamento ha sì una portata ampia, tale da comprendere le ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento come clausola generale ed elastica, ma non concerne anche le ipotesi in cui il fatto contestato sia in radice inidoneo, per espressa pattuizione contrattuale, a giustificare il licenziamento, le quali vanno invece equiparate a quelle dell’«insussistenza del fatto materiale».

La mancata previsione della reintegra quando il fatto contestato sia punito con una sanzione solo conservativa dalla contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo di quest’ultima nella disciplina del rapporto.

In conclusione, all’esito di queste due pronunce, vi è simmetria tra licenziamento disciplinare e licenziamento per ragione di impresa, tracciata dalla Corte sulla linea del “fatto materiale insussistente”.

 

Salari in ribasso solo in Italia

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Ultimo aggiornamento Venerdì 12 Luglio 2024 07:52 Scritto da Sandro Venerdì 12 Luglio 2024 07:50

Negli ultimi 30 anni i salari sono aumentati in tutta Europa.

Tranne in Italia

11 Luglio 2024

Le retribuzioni ridotte al minimo sono lo specchio del nostro Paese, che non sa affrontare le diseguaglianze. Ed è incapace d’investire su donne, giovani e regioni del Sud

Sono i salari ridotti al minimo il vero campanello d’allarme della crisi più profonda che affligge il nostro Paese: quelle retribuzioni che restano livellate, senza mai aumentare, sono la prova di un’anomalia esclusivamente italiana, generata dall’incapacità di costruire il futuro. Il confronto con il resto dell’Europa è lapidario: i dati evidenziano come tra il 1991 e il 2022, a parità di potere d’acquisto, lo stipendio medio annuale in Germania e Francia sia aumentato di oltre 13 mila euro; in Spagna l’incremento è stato di circa 1.500 euro, mentre in Italia c’è stata una diminuzione di 488 euro. Le analisi di WOSM© – il sistema sviluppato da Vidierre che permette di individuare comportamenti e tendenze partendo da un monitoraggio di 25 milioni di fonti nazionali e internazionali come Web, social e media – aiutano a comprendere cosa c’è dietro quelle buste paga al ribasso.

Anzitutto, sono lo specchio di un Paese che non riesce ad affrontare le diseguaglianze: i salari sono schiacciati dall’incapacità di investire sui giovani, sulle donne, sulle regioni del Sud. Partiamo dalla questione meridionale: altre nazioni hanno affrontato la disomogeneità territoriale nello sviluppo, evitando che ci fossero territori in qualche maniera lasciati indietro. Pensate soltanto a quanto è stato fatto nella ex Ddr dopo l’unificazione tedesca o a quello che è avvenuto in diverse aree di Polonia e Romania, che adesso vedono rientrare le persone partite verso l’Europa occidentale all’inizio del Millennio. Dal 1861 l’Italia resta a due velocità e da un quarto di secolo il divario si è allargato: non ci sono prospettive soprattutto per i giovani, che si muovono verso il Settentrione o verso l’estero. Il danno è doppio perché ad andare via spesso sono i più preparati o i più determinati, che preferiscono mettersi in gioco piuttosto che vivacchiare nella dimensione familistica o, ancora peggio, in quella assistenzialista: è come se lasciando emigrare i ragazzi più motivati si rinunciasse al futuro. Una colossale eutanasia, sociale, ma anche economica. Le potenzialità del nostro Sud sono gigantesche e non solo nel turismo, frenato dalla carenza di infrastrutture e servizi: ci sono poli di ricerca tecnologica in Puglia come in Campania che indicano una strada luminosa per valorizzare la ricchezza di idee, di creatività e di professionalità. Continuano però a venire soffocate da una miopia politica, imprenditoriale e amministrativa: tutto deve fare i conti con una burocrazia opprimente, lenta, autoreferenziale, che rappresenta una zavorra per ogni tentativo di trasformare.

Purtroppo, è amaro constatare che neppure il Nord riesce a puntare sulle nuove generazioni, sempre più attratte dalle opportunità offerte dal resto d’Europa: un richiamo collettivo, perché tutti sono consapevoli di ottenere trattamenti economici

migliori. Siamo davanti a una vera e propria questione generazionale, caratterizzata da una sfiducia generalizzata verso i giovani.

Inoltre, tutta la Penisola è allineata nel non riconoscere una concreta parità di genere, che si materializza proprio nelle differenze retributive e nella mancata valorizzazione delle donne: non ci sono le stesse opportunità di carriera, come se si accettasse consapevolmente di dimezzare le risorse umane.

Quando bisogna programmare lo sviluppo si segue una regola basilare: massimizzare ciò che c’è di positivo e minimizzare invece quello che rappresenta negatività. Non si può perdere altro tempo: c’è necessità di un radicale cambiamento di mentalità che guardi all’innovazione come unico modello vincente. Occorre spingere a osare, anche a costo di fallire: ricominciare a pensare in grande e investire su quei semi che possono germogliare con più vigore.

(di Gianni Prandi – lespresso.it)

   

Licenziato tramite Whatsapp

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Ultimo aggiornamento Martedì 09 Luglio 2024 08:52 Scritto da Sandro Martedì 09 Luglio 2024 08:37

Licenziato tramite Whatsapp

Lavoro, se vieni licenziato tramite Whatsapp puoi contestare e annullare la procedura: ecco come e in quali casi Il licenziamento tramite Whatsapp è legittimo?

Vediamo i singoli casi e le ipotesi di tutela per i lavoratori licenziati L'interruzione di un rapporto di lavoro tra azienda e dipendente generalmente avviene tramite l'atto di licenziamento.

Lo stesso (anche definito “recesso unilaterale”) può avere diverse motivazioni, tra cui la scarsa produttività, il mancato rispetto dell'orario lavorativo, comportamenti offensivi o violenti nei confronti dei colleghi ecc.).

Negli ultimi giorni si è diffusa la questione relativa alle modalità con le quali il datore di lavoro provvede ad effettuare il licenziamento dei propri dipendenti. Infatti, ha fatto discutere la condotta tenuta da un'azienda che fornisce forza lavoro a Euronics, la quale ha licenziato alcuni dipendenti attraverso un semplice messaggio Whatsapp, il cui invio, tra l’altro, è avvenuto durante l'orario lavorativo.

In particolare, il fatto è avvenuto nel Lazio e ha coinvolto i dipendenti della società “Nova Casale Srl”, la quale è connessa alla compagine di Euronics perché si occupa di fornire lavoratori alla detta azienda. Ebbene, ciò che ha fatto particolarmente discutere e ha scosso parte dell'opinione pubblica sono non solo le modalità attraverso cui il licenziamento è avvenuto, ma soprattutto il fatto che lo stesso è avvenuto in tronco, con obbligo immediato di lasciare la sede di lavoro e di restituire tutte le dotazioni in possesso dei singoli dipendenti. Inoltre, l'azienda non ha garantito ai lavoratori licenziati alcun preavviso, né le altre garanzie tipiche di un rapporto di lavoro.

Il messaggio Whatsapp recapitato ai singoli dipendenti è piuttosto chiaro e conciso, non legittimando alcun dubbio circa il suo contenuto. Nel testo si legge infatti: “Il suo rapporto di lavoro cessa contestualmente con la ricezione della presente con Suo esonero dal prescritto periodo di preavviso, in luogo del quale Le sarà erogata la corrispondente indennità sostitutiva. La invitiamo a restituire senza dilazione ogni bene aziendale che fosse ancora in suo possesso.”

La scelta dell'azienda ha fatto discutere, sebbene le sigle sindacali coinvolte - ovvero Fisascat, Cisl Lavoro, se vieni licenziato tramite Whatsapp puoi contestare e annullare la procedura: ecco come e in quali casi © Brocardi.it 2003-2024 - Tutti i diritti riservati 2 e Filcams - già da tempo fossero state informate dell'esistenza di alcuni piani di licenziamento ad opera di aziende che collaborano con Euronics Italia Spa.

Secondo le informazioni diffuse, infatti, il numero di lavoratori e lavoratrici che rischiano il licenziamento è particolarmente elevato: si parla di centinaia di dipendenti, in un'area geografica che comprende i territori di Roma e Frosinone, nonché quelli di Rieti e Pomezia. A questo punto si pone un'altra questione, di natura squisitamente giuridica: ovvero se sia legittimo e conforme alla legge procedere al licenziamento di un dipendente attraverso un messaggio Whatsapp, che al giorno d'oggi costituisce indubbiamente una modalità di comunicazione abbastanza diffusa.

È bene tenere a mente innanzitutto che oggi, a causa dell’enorme diffusione dei social media e di una elevatissima informatizzazione, è cambiato anche il modo con cui effettuare comunicazioni aziendali. Ciò ha fatto sì che alcune comunicazioni, relative ad esempio ai turni di lavoro o anche ai provvedimenti disciplinari, vengano effettuate tramite l’invio di una semplice e-mail oppure tramite messaggi Whatsapp o altri social network. Tuttavia, qualche dubbio sorge nel caso in cui tali modalità telematiche vengano impiegate per effettuare un licenziamento. Secondo quanto affermato tanto dalla legge quanto dalla giurisprudenza, rispetto alle comunicazioni per cui sia richiesta la forma scritta, non rileva affatto lo strumento attraverso cui tali comunicazioni siano state effettuate, ma risulta determinante la prova dell’effettivo ricevimento della comunicazione da parte del destinatario, nonché l'effettiva conoscenza del contenuto della stessa. In questi casi, l'onere probatorio dell'assolvimento di tale obbligo spetta al datore di lavoro che provvede al licenziamento.

Qualora il dipendente, infatti, contesti lo stesso provvedimento per le modalità impiegate, asserendo la mancata ricezione dello stesso, è compito del datore di lavoro provare che il dipendente abbia effettivamente ricevuto la comunicazione. Infatti, con specifico riferimento al licenziamento, lo stesso costituisce un atto unilaterale e recettizio, poiché produce i suoi effetti solo quando giunge a conoscenza del destinatario. Al riguardo, rileva quanto disposto dall’art. 1 della l. 604/1966 in materia di licenziamenti individuali, secondo la quale il licenziamento deve necessariamente avvenire in forma scritta, a pena di inefficacia dello stesso. In caso di violazione di tale prescrizione, il dipendente licenziato potrà chiedere di essere reintegrato nel posto di lavoro. Tuttavia, la norma ha una formulazione piuttosto generica. Essa, infatti, non fornisce alcuna precisazione in ordine alla tipologia di forma scritta che dev'essere impiegata, permettendo dunque l'utilizzo di diverse modalità di comunicazione. A sostegno di tale interpretazione si è altresì pronunciata la Suprema Corte di Cassazione, la quale ha dichiarato che “in tema di forma scritta del licenziamento non sussiste a carico del datore di lavoro l’onere di adoperare forme “sacramentali”, ben potendo comunicare la volontà di licenziare in Lavoro, se vieni licenziato tramite Whatsapp puoi contestare e annullare la procedura: ecco come e in quali casi © Brocardi.it 2003-2024 - Tutti i diritti riservati 3 forma diretta purchè chiara”. Ebbene, alla luce di quanto detto, non dovrebbero esserci dubbi circa la legittimità di un licenziamento avvenuto tramite Whatsapp. Si ricorda tuttavia che, qualora il datore di lavoro decida di impiegare questo strumento, sarà compito suo provare l'effettiva ricezione e conoscenza della comunicazione da parte del lavoratore licenziato.

Fondamentale al riguardo è quanto affermato dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto non idonea, a fini probatori, né la doppia spunta blu nelle chat Whatsapp, né l’e-mail che conferma il ricevimento da parte del destinatario. La legittimità del licenziamento del dipendente tramite Whatsapp o tramite e-mail, tuttavia, può derivare dal fatto che il destinatario della comunicazione abbia fatto leggere la stessa ai colleghi, oppure abbia chiesto informazioni al proprio legale di fiducia per procedere alla contestazione del provvedimento adottato nei suoi riguardi.

Pertanto, se il dipendente non agisce a tutela della propria posizione giuridica in seguito alla ricezione del messaggio WhatsApp, il licenziamento potrebbe essere qualificato come legittimo da parte del giudice. L'illegittimità, invece, colpisce le ipotesi di licenziamento collettivo tramite Whatsapp. Infatti, per tale ipotesi di licenziamento è necessario lo svolgimento di una particolare procedura, ai sensi della l. 223/1991, che richiede la comunicazione ai sindacati, nonché la previa individuazione delle categorie di lavoratori da licenziare.

Ciò preclude l'esecuzione di un licenziamento collettivo tramite Whatsapp.

Avv. Marco De Gregori

   

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